I 10 dolci del Giappone più buoni: tutto quello che bisogna sapere sul nuovo trend

Ogni volta che andiamo al ristorante giapponese e finiamo il pasto mangiando un dorayaki, un daifuku mochi, oppure un mochi col gelato al tè verde, vengo sempre assalita da un senso di incompletezza. Succede anche quando qualcuno mi dice che i dolci giapponesi non gli piacciono perché la pastella di riso glutammoso si appiccica in bocca e il sapore dell’anko, la marmellata di fagioli rossi, ha una consistenza troppo diversa da quella a cui siamo abituati. Questi discorsi mi lasciano, neanche a dirlo, l’amaro in bocca, perché sembra che la pasticceria giapponese sia tutta qui.

Nasce da questo fastidio la mia idea di dedicare un libro al tè e ai dolci del Giappone, che si intitola – appunto – Tè e Dolci del Giappone, Storia, miti e ricette (edizione Gribaudo, in libreria da aprile).

DOLCI GIAPPONESI, IL NUOVO TREND

Il momento sembra quanto mai propizio: trainata dalla diffusione del matcha, il tipico tè verde, la tradizione dolciaria giapponese è una delle novità gastronomiche di questi ultimi tempi, con i suoi templi del gusto, prima tra tutte Hiromi Cake la pasticceria tutta giapponese che nasce a Roma e ha aperto da poco anche a Milano.

Ma cosa si deve assolutamente provare di questa tradizione dolciaria? I mochi innanzi tutto, i tipici rappresentanti della tradizione dolciaria del Sol Levante chiamata wagashi, e poi – all’estremo opposto – le nuove creazioni di casa nostra rilette con ingredienti giapponesi, come il tiramisù al tè matcha. In mezzo ci sono gli yōgashi, ovvero di tutti quei dolci di origine occidentale che però oggi fanno oggi parte della tradizione nipponica e pochi sanno che in Giappone è fiorente l’arte della panificazione, ovvero il kashipan, i prodotti da forno: chiunque sia stato a Tokyo sa benissimo che passeggiare per le sue strade significa fare uno slalom tra le boulangerie. Nel paese del riso succede anche questo ed è quanto mai curioso.

I DOLCI DEI MISSIONARI

Recuperare la narrazione sugli yōgashi e sul kashipan, significa indagare un particolare periodo storico, quello del Sengoku jidai (1467 – 1615) durante il quale il Giappone fu scosso da guerre intestine che portarono all’unificazione del paese nel 1600 e dunque all’inizio del periodo Edo. Fu proprio durante il Sengoku jidai che i primi missionari gesuiti sbarcarono sulle coste di Kagoshima (1549) portando con sé la loro cultura, compresa quella gastronomica.

Simbolo di questo incontro tra Oriente e Occidente è la Castella (la kasutera) il pan di Spagna che, una volta arrivato in Giappone venne addomesticato secondo i gusti e le esigenze locali. I giapponesi, poco avvezzi ai grassi animali, lo resero più soffice e leggero, si innamorarono di questa loro versione e non la lasciarono più. Durante il medioevo giapponese, però, non successe solo questo. In quel periodo visse anche il più importante chajin, Maestro del tè, di tutti i tempi, Sen no Rikyū. È lui che, attraverso il tè, seppe portare a compimento un processo di sintesi identitaria smarcando il Giappone dalle influenze cinesi. Questo processo si concluse con la codificazione del wabicha, un percorso che è ancora oggi la pratica giapponese del tè (appronfondita, insieme ad altre storie, nel mio libro).

Curiosi di provare i dolci giapponesi?

(di STEFANIA VITI).

*FONTE: Vanity Fair.