Il Giappone ha deciso di rilasciare nell’Oceano Pacifico più di un milione di tonnellate di acque contaminate provenienti dall’impianto nucleare di Fukushima, travolto da esplosioni e dal “meltdown” di tre diversi noccioli di altrettanti reattori dopo lo tsunami a sua volta innescato dal terremoto del Tōhoku dell’11 marzo del 2011.
Lo sversamento partirà fra due anni e si completerà in una quarantina. La decisione del governo di Tokyo è stata concordata e approvata anche dall’Aiea, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica. I gruppi ambientalisti hanno protestato con forza, così come i paesi vicini (Cina e Corea del Sud) e le associazioni dei pescatori. Sì, le stesse che magari contano fra i propri associati anche quelli che manovrano le baleniere.
Le acque contaminate
Le acque contaminate sono il frutto dell’aspirazione e del filtraggio iniziato nelle fasi successive al disastro e ancora in corso ogni giorno: acque piovane e sotterranee, nonché acque usate per il raffreddamento dei reattori collassati, vengono “ripulite” ogni giorno, portando i livelli di gran parte degli isotopi radioattivi (per la precisione 62 radionuclidi) sotto gli standard internazionali imposti alle centrali nucleari. Il punto centrale riguarda alcuni di essi, soprattutto il trizio, un isotopo radioattivo dell’idrogeno che il sistema Alps, quello appunto di filtraggio, non riesce a trattenere. E che finirà in mare. Ma che è dannoso per l’uomo solo in quantità davvero elevate.
“Il metodo di smaltimento delle acque scelto dal Giappone è fattibile e in linea con gli standard e le pratiche internazionali – ha spiegato il direttore generale dell’Aiea Rafael Mariano Grossi – anche se la quantità di acqua presente a Fukushima lo rende un caso unico e complesso”. Oltre al trizio, in realtà, isotopi più problematici con vite radioattive più lunghe come il rutenio, il cobalto, lo stronzio e il plutonio possono a volte non essere trattenuti dal procedimento Alps. Una falla di cui Tepco, la Tokyo Electric Power Company che gestisce il sito ed è anche responsabile della bonifica, si è resa conto solo nel 2018.
Le acque processate sono al momento contenute in oltre mille serbatoi costruiti da Tepco, in grado di mantenere 1,25 milioni di tonnellate di liquidi. Saranno pieni nella seconda parte del 2022, e anche se ne verranno costruiti altri occorre cominciare a mettere in cantiere lo scaricamento in mare del loro contenuto. Il trizio, su cui si concentra gran parte delle preoccupazioni, ha un’emivita (cioè una fase di decadimento) di 12,3 anni, negli esseri umani di 7-10 giorni. Ma nel 71% di quei serbatoi ci sono anche isotopi più pericolosi “che si comportano in modo diverso dal trizio nell’Oceano e che vengono più rapidamente incorporati dagli organismi marini e si depositano sui fondali” ha detto a Science Ken Buesseler, chimico marino del Woods Hole Oceanographic Institution della Florida.
L’acqua sarà dunque di nuovo diluita prima di essere rilasciata, proprio per trattare ulteriormente anche quei radionuclidi, così da rispettare – dice il governo nipponico – gli standard internazionali: “Non è nulla di nuovo – ha aggiunto Grossi – si fa ovunque, non c’è alcuno scandalo”. Vero. Ma è anche vero, come aggiunge Buessler, che quegli standard riguardano le attività degli impianti in tempi di pace, non gli scarti e i trattamenti dopo una catastrofe di quella portata.
I motivi del dibattito
A sollevare di nuovo il punto in Italia, ma in chiave del tutto opposta alle preoccupazioni, è stato pochi giorni fa Marco Cattaneo, direttore de Le Scienze, Mind e del National Geographic Italia, che in un thread su Twitter ha sostanzialmente riassunto quanto detto finora e aggiunto alcuni elementi da cui osservare la questione. ”È tornato il panico per l’acqua di Fukushima riversata nell’oceano – ha scritto – però prima di immaginare pesci fluorescenti (che esistono in natura, peraltro) o tartarughe con le ali, bisogna sapere un paio di cose”. Che cosa? Per esempio, che “le acque degli oceani sono già debolmente radioattive. È la radioattività naturale. Che è particolarmente alta in alcuni luoghi, per via della concentrazione di isotopi, naturali, radioattivi”. Non solo: “Piazza San Pietro, per esempio, ha un fondo di radioattività naturale più elevato, per via dei sampietrini. È due volte più radioattività del fondo naturale medio italiano. Le banane? Debolmente radioattive pure quelle, perché contengono l’isotopo 40 del potassio, un isotopo radioattivo che può subire due tipi di decadimento, beta- e gamma. Ma tranquilli. Il potassio non si accumula nell’organismo. Quindi la radioattività che ingeriamo con le banane se ne va insieme al potassio che contengono”.
Banane e Vaticano a parte, e tornando alle acque contaminate, Cattaneo ha aggiunto che “la quantità di acqua che sarà riversata nell’Oceano Pacifico corrisponde a poco più di un milione di tonnellate. Un cubo di 100 metri di lato. Ma non sarà riversata tutta insieme. Sarà fatto in mare aperto, un po’ per volta e in zone diverse. L’Oceano Pacifico, invece ha un volume d’acqua di oltre 760 milioni di chilometri cubi. L’acqua di Fukushima nel Pacifico, perciò, sarà più diluita di qualsiasi prodotto omeopatico. E non aumenterà di una virgola la già bassissima radioattività naturale dell’Oceano. Perciò se vedrete pesci fluorescenti probabilmente sarà bioluminescenza naturale. Se invece vedete tartarughe con le ali, vuol dire che avete fumato roba buona”. Questo non significa affatto, ha poi aggiunto nei commenti, sottovalutare la complessità dello smantellamento del sito, che durerà decenni e sarà costosissimo. Solo ridimensionare un fronte sul quale c’è molta attenzione ma non troppo da preoccuparsi.
Stando a un portavoce del governo nipponico, Katsunobu Kato, la diluizione ridurrà dunque i livelli di trizio ben al di sotto degli standard interni e di quelli stabiliti dall’Organizzazione mondiale della sanità per l’acqua potabile. Eppure, secondo Greenpeace, materiali radioattivi come il carbonio-14 possono rimanere nell’acqua e ovviamente finire per “concentrarsi nella catena alimentare”. Secondo l’organizzazione ambientalista, l’accumulo di quantitativi nel corso del tempo potrebbe danneggiare il Dna degli organismi marini. La soluzione: bisognerebbe mantenere quelle acque nei serbatoi finché non disporremo di migliori sistemi di filtraggio, favorendo il decadimento naturale degli isotopi. Mentre le organizzazioni della pesca locale temono che il messaggio sulla sicurezza delle acque non passi e che nessuno voglia acquistare pesce e altri prodotti pescati nelle acque al largo della prefettura, come già accade da un decennio nonostante i limiti ben più severi in termini di presenza di becquerel per chilogrammo, a Fukushima 50 contro i 100 stabiliti dal Giappone, i 1,250 dall’Unione Europea e i 1.200 dagli Stati Uniti.
Ovviamente gli esperti spiegano che è importante controllare la diluizione e il volume delle acque rilasciate, questa è l’opinione di Michiaki Kai, specializzato nel risk assessment radioattivo all’Università Oita. “Tuttavia c’è accordo fra gli scienziati sul fatto che l’impatto sia minuscolo” ha spiegato all’Afp. Ovviamente il rischio “non è zero ed è questo che causa il dibattito”. Per Geraldine Thomas, responsabile delle patologie molecolari all’imperial College di Londra ed esperta del settore, il trizio “non pone un rischio in nessun modo e particolarmente quando si mette in conto la diluizione nel Pacifico”. Neanche il carbonio-14 sarebbe un rischio: il mercurio dovrebbe preoccupare di più i consumatori “più di qualsiasi cosa che arrivi dal sito di Fukushima”.
*FONTE: Esquire.com